"Avimmo visto ‘o brutto d’a vita, ma stammo ccà pe’ dimostrà all’ate ‘e nun fa’ cchiù sti sbagli." Il teatro come riscatto, come possibilità, come spiraglio di luce in un contesto che spesso ne ha poca. Questa mattina, nella carcere di Asti, la compagnia Teatro Oltre ha portato in scena uno spettacolo intenso e toccante, tra riflessione e ironia, tra il peso del passato e la speranza di un futuro. Sul palco, diciassette detenuti hanno raccontato la loro realtà con coraggio e autenticità, dimostrando che anche dietro le sbarre esiste un orizzonte possibile.
Lo spettacolo, diviso in due atti, ha mostrato due anime diverse della vita carceraria. Il primo, Non sia un giorno come tanti, ha dato voce ai pensieri e alle emozioni dei detenuti, trasformando il palcoscenico in uno spazio di confessione collettiva.
Il carcere come a' livella
Un metateatro potente, dove il confine tra finzione e realtà si è dissolto completamente. "Il carcere è una livella", recitano in scena, citando Totò. "Abbriciamoci e facimmici sta galera", perché qui, dentro queste mura, non ci sono più ricchi o poveri, potenti o umili. Ci sono solo persone. Persone che hanno sbagliato, ma che oggi vogliono raccontare la loro storia per evitare che altri facciano lo stesso errore.
Le loro voci, molte delle quali in dialetto napoletano e calabrese, hanno reso la narrazione ancora più autentica e coinvolgente. "Il teatro permette di trasformare la sofferenza in qualcosa di diverso" ha spiegato Mario Li Santi, uno dei responsabili del laboratorio teatrale. "Loro hanno lavorato duramente da ottobre, mettendo in scena non solo uno spettacolo, ma anche il loro percorso di vita. Hanno riversato in questa esperienza tutta la loro energia positiva e, a volte, anche la loro frustrazione. Perché è normale che in un contesto come il carcere ci siano momenti difficili, ma il teatro ha dato loro un modo per incanalarli in qualcosa di costruttivo"
Se esiste una funzione rieducativa della pena, allora questa mattina non è rimasta un vuoto concetto, ma è stata riempita di gesti, di parole, di risate, di passione. Ogni battuta, ogni sguardo, ogni applauso ha reso concreto il senso di un percorso che non si è fermato alla reclusione, ma ha cercato una via di rinascita attraverso l’arte.
Una pena che tocca gli affetti più cari
Uno dei momenti più toccanti è arrivato con un monologo che ha lasciato il pubblico sospeso in un silenzio assoluto. Un detenuto, con la voce spezzata dall’emozione, ha raccontato cosa significhi essere privato degli affetti più cari:
"Io non riesco più a credere in Dio, perché nella mia realtà non ho mai trovato il divino. Per me Dio è mio figlio. E la Madonna, mia moglie."
Un pugno allo stomaco. Parole semplici, crude, dirette. Parole che raccontano la distanza, la solitudine, il rimpianto. Il carcere non è solo una punizione, è anche la condanna di non poter stringere chi si ama, di vedere i figli crescere da lontano, di sentirsi esclusi da una vita che fuori va avanti, mentre dentro tutto sembra immobile.
Il secondo atto, invece, ha regalato momenti di leggerezza con "Un letto per tre", una commedia in stile eduardiano scritta da uno dei detenuti, Michele C. La qualità recitativa ha sorpreso il pubblico, confermando la crescita artistica della compagnia. Un percorso frutto del lavoro iniziato a ottobre sotto la guida di Agar, con il regista Pellegrino Delfino e il coordinamento di Silvana Nosenzo e Mario Li Santi.
"Non si tratta solo di insegnare loro a recitare - ha raccontato Silvana Nosenzo - Si tratta di dare loro un mezzo per raccontarsi, per capire meglio sé stessi e per trovare uno scopo. Abbiamo visto in loro una grande voglia di fare, di migliorarsi, di dimostrare a sé stessi che la vita non finisce tra queste mura. E il teatro è un ponte, una finestra aperta su qualcosa di nuovo"
"Questi sono sempre i nostri ragazzi"
Alla rappresentazione ha assistito anche la direttrice del carcere, Giuseppina Piscioneri, insieme a Monica Olivero e Debora Chiarle dell’amministrazione penitenziaria. "Per noi, loro sono sempre i nostri ragazzi" hanno sottolineato. Un concetto semplice, ma potente: dietro ogni detenuto c’è una storia, un vissuto, una persona.
E il pubblico ha percepito tutto questo. La platea era composta da parenti, amici, ma anche da spettatori esterni, persone che, forse per la prima volta, hanno varcato la soglia del carcere non per giudicare, ma per ascoltare. Le emozioni erano forti e contrastanti. Da un lato, la consapevolezza di trovarsi di fronte a persone che hanno commesso errori anche gravi. Dall’altro, l’impossibilità di restare indifferenti davanti alla loro umanità, alla loro voglia di riscatto.
"A gioia è na parola"
Uno dei momenti più intensi è arrivato quando, con voce ferma, uno degli attori ha pronunciato una frase che ha fatto calare un silenzio assoluto nella sala: "A gioia è na parola." Una pausa, uno sguardo rivolto al pubblico. Poi la correzione: "No, a gioia nun è na parola. A gioia se po' campà, se po’ spartì."
E per qualche istante, la gioia è stata davvero condivisa. Dentro e fuori. Perché il teatro, come la vita, può restituire ciò che sembrava perduto.