Per accompagnarti nella lettura di questa intervista ti consiglio la canzone Good Time, di Owl City e Carly Rae Jepsen, contenuta nella playlist "Orgoglio Astigiano" su Spotify
Incontro Massimo Barbero davanti a una buona colazione. 50 anni, guida il Teatro degli Acerbi, da 26 anni fiore all'occhiello del nostro territorio.
Gli chiedo come lo possa definire. Mi dice che "teatrante" è perfetto.
Come, quando e perché è nato il Teatro degli Acerbi?
Venne fuori l'idea nel novembre 1998, all'ex Centro Giovani di Asti, dove adesso sorge la Biblioteca Astense. In quella riunione eravamo tutti giovani, poco più che ventenni, venivamo da scuole di recitazione astigiane, che allora erano particolarmente fiorenti. Ci dissero di provare a fare una compagnia teatrale tutta nostra. C’era grande vitalità in questo senso, molto più di oggi. Ci sembrò un'idea vincente: invece di pensare di assorbirci con realtà precostituite, ci proposero un nostro cammino. Dovevamo chiamarci "Pittura Fresca" inizialmente, ma una persona esterna a noi ci disse “secondo me siete Acerbi”. E allora nacque la Compagnia degli Acerbi, che poi divenne Teatro, perché ci sembrava più completo. Era un grande gruppo. Qualcuno dice di essere stato "Acerbo" per un giorno solo: alcuni parteciparono solo a quella riunione di fondazione, perché stavano già facendo altri percorsi. Non facemmo mai nulla insieme ad alcuni, ma una cosa è certa: per un giorno furono tutti Acerbi. È curioso perché abbiamo recentemente ricordato questi aneddoti, in occasione del 25esimo anniversario, al termine di uno spettacolo a Chivasso. Il nostro obiettivo è quello di raccontare il nostro territorio attraverso il teatro, facendo parlare anche luoghi dimenticati dell'Astigiano, quelli meno conosciuti.
Pensi che l'Astigiano, terra che valorizzate molto nei vostri spettacoli, si voglia sufficientemente bene?
Non so se si vuole così bene, più o meno consapevolmente. C’è molto campanilismo, un po' a tutti i livelli. E questo è un grande limite, che rende difficile lavorare in rete. Noi ci proviamo, ma serve affinità, vicinanza di modus operandi, di poetica. Il nostro è un territorio fortunato: una culla di cultura. Qui possiamo vantare di avere il Teatro Alfieri, ad esempio. Lo racconto in uno spettacolo, il nostro è stato il primo teatro, negli anni Settanta, a passare a gestione pubblica su impulso privato. E da quel momento nacque anche Asti Teatro, uno dei più importanti festival italiani. Noi astigiani diamo per scontate tante cose oggi, ma chi ha inventato tutto questo è stato grande. E da lì tutto a cascata, la biblioteca vivissima con il proprio festival, AstiMusica, fioriscono iniziative importanti, ci sarebbe grandissima vitalità culturale.
Come hai incontrato la passione per il teatro, diventato poi la tua vita?
Un sogno arrivato per caso, un innamoramento inaspettato. Nel 1994 un amico mi ha portato a una lezione di prova di un corso di recitazione e mi sono innamorato della situazione, del dialogo, della convivialità. Di tutto, fondamentalmente. E poi, la prima volta sul palco, per chi si innamora di questo mestiere, è un po' una dipendenza. Del palco non riesci più a fare a meno. Palco intenso come luogo di cura. Il teatro ha il segreto di guarire i malanni. L’adrenalina è una cura, da non abusarne, ma cura.
Un consiglio ai ragazzi che cercano la propria strada?
Non fare per forza un percorso preconfezionato. Bisogna fare qualcosa in cui si crede, in cui si ha ispirazione. A meno che uno non voglia stare in un percorso preconfezionato, ovviamente. Perché, diversamente, quell'altro punto di vista a un certo punto si farà sentire: c’è una vocina dentro, che è più o meno forte, bisogna capire se uno la vuole ascoltare o meno. Credo che bisognerebbe andare nella direzione che ci ispira davvero, in base alla propria indole. E io ho seguito l’ispirazione. Pensa che stavo facendo il geometra (era una mezza ispirazione, quella), ma è arrivata questa chiamata, questa vocazione, e l’ho seguita.
Cosa vuol dire per te il teatro?
È una sorta di rito, un rito comunitario, di cui i maestri, come Eugenio Allegri, ad esempio, sono i grandi sacerdoti. Teatro significa persone messe in un cerchio, con in mezzo una persona che si prende la responsabilità del rito, che ha una storia da raccontare. E mi ritrovo molto in questa sorta di definizione. Serve avere qualcosa da raccontare per mettersi sul palco; negli anni sono diventato sempre più estremista in questo senso. E ad oggi ritengo sia giusto andare sul palco solo se ho realmente qualcosa da dire, non per commissione. Questo cambia molto il livello di relazione.
Di guarigioni e attese
Ce ne sarebbero di cose da pensare dopo le parole di Massimo. A cominciare dal concetto di cura. La guarigione personale, spirituale, che passa attraverso l'arte e, più estesamente, attraverso tutte quelle sfere che riescono a toccare le corde più profonde del nostro sentire. Così come prendersi la responsabilità di parlare solo quando, effettivamente, si ha davvero qualcosa da dire, da raccontare. Avere la forza, la resilienza e la pazienza di stare nel momento dell'attesa, fino a che i pensieri non maturano a dovere. Come scrive Thích Nhất Hạnh, "sii un germoglio in silenziosa attesa sulla siepe. Sii un sorriso, frammento del miracolo della vita. Rimani qui. Non c'è bisogno di partire"
Il ricordo più bello in scena?
Ne ho tanti, fortunatamente. Ci sono salito qualche migliaio di volte sul palco e più di 200 volte da solo con monologhi. Sicuramente la prima volta non si scorda mai, il primo saggio, in Sala Pastrone. L'emozione della prima battuta, quella paura, quel baratro. E poi conservo un ricordo bellissimo di uno spettacolo in Iran, a Teheran, nel 2010. Portammo uno spettacolo grazie a Luciano Nattino, un lavoro in italiano, un testo su "Il mondo dei vinti", di Nuto Revelli. Un lavoro in italiano, in una terra in cui si parla soprattutto Farsi. Ricordo tantissimo pubblico, soprattutto giovani studenti. A un certo punto dello spettacolo il pubblico non leggeva più i soprattitoli, ma si lasciava trasportare da cosa succedeva in scena, dalla musicalità dei suoni. Una sintonia perfetta tra teatranti e pubblico, pur avendo lingua e cultura diverse, che ci separavamo. Eppure... Ecco, provai la sensazione di aver fatto qualcosa di realmente importante, di essere andati oltre. Le persone ci riconoscevano per strada e fu un episodio che mi aiutò a trovare nuove energie, nuove motivazioni per andare avanti.
E il momento più difficile?
Ce ne sono stati tanti. Ogni giorno è complicato per chi fa veramente questo mestiere. Ogni giorno ti poni il dubbio se abbia senso ciò che stai facendo. Ad ogni modo, quando è mancato Luciano Nattino. È scomparso un maestro che mi ha instradato. Come quando muore un papà. La tua vita cambia, di punto in bianco diventi grande. Mi dissi "ora tocca davvero a me, a noi, siamo soli". Diventiamo noi padri di qualcosa d’altro o maestri di altri, è una grande responsabilità. In generale, comunque, le compagnie sono realtà in cui si respira la difficoltà: persone che vanno e vengono, crisi, perdita di vocazione. Riuscire a tenere insieme tutto questo è complesso.
I prossimi appuntamenti?
Domenica pomeriggio 19 maggio nel Parco Rio Crosio ci sarà “Hansel e Gretel” di Campsirago Residenza, con la regia di Michele Losi. È uno spettacolo itinerante ed esperienziale che si snoda in un percorso di teatro immersivo nel Parco Rio Crosio attraverso paesaggi sonori, voci, azioni teatrali, immagini. Con la Casa degli Alfieri abbiamo il debutto in Asti Teatro il 26/27 giugno, con lo spettacolo “Teresa: la sarta che voleva ricucire il firmamento”, testo di Antonio Catalano. Noi Acerbi rifaremo ad Asti Teatro le visite teatralizzate all'Alfieri. Torniamo racccontatori di luoghi, in scena con Chiara Buratti il 23-24 giugno. Inoltre, stiamo lavorando a nuovi cartelloni, riparte "Acerbi al Parco", poi ci sarà il "Festival Paesaggi e oltre" e stiamo pensando a nuovi lavori, che sono ancora in una fase di studio. Patrizia Camatel lavorerà a un nuovo spettacolo per l’infanzia con danza contemporanea, Elena Romano sulla voce ancestrale, mentre io sto pensando a un nuovo lavoro, che faccia seguito ai tre monologhi che ho già, che si intitolerà “Notti Magiche: quel sogno che incomincia da bambino”. Magari sulla mia adolescenza, un mix di ricordi personali, di un’Italia che non c’è più...