Cultura e tempo libero - 02 maggio 2023, 14:45

Perché è importante coltivare il fantasy in Italia: dialogo con Fulvio Gatti

Fantapolitica, turismo e sostenibilità nel Protocollo Scilla, l'ultimo romanzo dello scrittore monferrino.

Perché è importante coltivare il fantasy in Italia: dialogo con Fulvio Gatti

È capitato di chiacchierare con Fulvio Gatti di recente: l’uscita del suo ultimo libro, Il Protocollo Scilla, finalista al Premio Urania 2021, è stata l’occasione per ospitarlo per la prima volta alla Biblioteca di Canelli. Di casa a Vaglio Serra, scrive sulla Nuova Provincia e vede il mondo con gli occhiali galattici della fantascienza.

La presentazione del suo libro succede in una rara giornata di pioggia, e scorre con piacevolezza, alle domande mirate di Ugo Rapetti. Auto-pubblicato e curato fin dei minimi dettagli in modo sartoriale, Il Protocollo Scilla ha tutta l’aria di una visione anticipatrice non lontana dalla realtà, nella città a tinte cyberpunk che campeggia in copertina.

 

Prima di parlare del libro, raccontami qualcosa su di te

Inizierei dicendo che in questi anni ho fatto di tutto tranne che scrivere, pur avendo incominciato giovanissimo a scrivere, letteralmente sui quaderni di prima elementare! Poi ho ricominciato, mosso dalla passione per la letteratura fantastica, anche se scoraggiato dai tanti che dicevano che l’Italia non è un paese per la fantascienza.

Come scrittore professionista, per me tutto ha inizio nel 2018, quando mi sono regalato un corso di scrittura negli Stati Uniti, a Colorado Springs. L’idea di scrivere in inglese mi era sempre un po’ balenata nella testa — se l’Italia non è un paese per la fantascienza scriverò per il mercato anglosassone — mi sono detto. Avevo e ho diversi amici che scrivono e illustrano in inglese, uno su tutti Maurizio Manzieri, che è un celebre illustratore per il mercato del fantasy e della fantascienza americana. L’Italia porta all’estero tantissimi talenti in questo campo, ma principalmente talenti grafici e visuali. Lo scoglio della lingua è uno svantaggio oggettivo. E il mio primo approccio all’inglese è curioso, perché ho iniziato traducendo i testi dei videogiochi Nintendo per mio cugino, pur senza averlo mai studiato!

Tornando al corso, è stato molto divertente. Perché negli anni ho sempre lavorato dell’editoria, ricoprendo tutti i ruoli possibili, dal traduttore alla gestione di eventi esteri (le fiere di Londra e Francoforte, ad esempio) ma mai ero stato autore creativo. Questo un po’ per la “testa piemontese” forse, che mi diceva: no, con la scrittura non si campa.

 

Però ci sei sempre girato intorno

Vero, orbitavo sempre intorno a quel centro. Già dentro il saggio I nerd salveranno il mondo, che ho pubblicato nel 2017, avevo sperimentato inserendo delle parti di romanzo, però forse allora era mancato il coraggio.

Quel famoso corso era tenuto da Kevin J. Anderson, scrittore non tradotto qui in Italia con i suoi romanzi di fantascienza, ma pubblicato con i romanzi di X-Files, di Star Wars, di Alien, e adesso con il sequel di Dune, realizzato insieme a Frank Herbert. È forse proprio lui che mi ha reso un lettore di fantascienza, grazie ai suoi romanzi di Guerre Stellari. Ci sono particolarmente legato.

Al ritorno da Colorado Springs, entusiasmato, mi sono dato alla scrittura in modo totalizzante: per una challenge con un’amica, ho iniziato a scrivere un racconto al giorno. Un modo formidabile per allenare l’inglese che serve a raccontare delle storie. Questa lingua è potentissima come strumento creativo: ogni parola, ogni verbo ha innumerevoli sfumature di significato e di modalità di azione per i personaggi. È una lingua dal grande dinamismo, che rispetto all’italiano ti costringe quasi a usare un’altra area del cervello.

Dal 2018 ho prodotto tre romanzi e una quindicina di racconti in inglese per gli Stati Uniti, ma qui i tempi di sedimentazione e di successo sono più lungi rispetto all’Italia: quello statunitense è un mercato editoriale più lento ed esigente, per cui ci vorrà ancora qualche anno. Per l’Italia ho pubblicato La vita sociale delle sagome di cartone nel 2019. E adesso Il Protocollo Scilla, il mio quinto libro. Alla base della storia c’è un’idea al tal punto “italiana” che non potevo non rivolgerla all’interesse dei lettori italiani.

 

Questo è un punto: quanta vitalità ha il mercato editoriale italiano legato a questo genere?

Oggi è più di quanto crediamo che possa essere. Nei decenni c’è stato un grosso problema: eredi della formidabile forza linguistica in sé stessi e per sé stessi dei grandi scrittori nel Novecento — nelle nostre zone Fenoglio e Pavese — l’editoria italiana ha in un certo senso ripudiato i generi letterari, in favore di una sorta di potenza autoriale superpartes. Salvo poi ingegnerizzarli, renderli opera della tecnica. Uno su tutti, il genio di Umberto Eco: tutti i thriller soprannaturali storici in circolazione sono figli della sua penna e della ricaduta culturale che ha avuto. Ciò che circola di più oggi è indirizzato dalle grandi catene di bookstore, che generalizzano i generi con poche eccezioni. Negli ultimi vent’anni si è evoluto il genere poliziesco, del noir, che oggi sfreccia persino troppo: una storia sembra non funzionare se non c’è un commissario dentro!

Io arrivo da altre radici, quelle di Star Wars, che chiamo ancora orgogliosamente Guerre Stellari, per me pietra miliare di tutta la fantascienza, ma poi anche dal mondo britannico, da Doctor Who ai Monty Python. Il quadro è quello di un racconto non necessariamente realistico ma che prende spunto dalla realtà, in modo satirico o intellettuale, per provare a guardare lontano.

 

Mi racconti di più sul Protocollo Scilla? Senza spoiler!

Tutto si apre con una scena in cui Fabrizio Arconte, padre di Augusto Arconte, il protagonista della nostra storia, si trova nella stessa situazione in cui mi sono trovato io prima di avere l’idea che ha generato il libro.

Scilla, da cui il Protocollo, è questa magnifica località della Calabria, in cui ho passato due estati per via di legami famigliari. È un posto che mi ha colpito davvero molto, perché ha le montagne e il mare a pochissima distanza. Conserva poi alcune scalette antiche scavate nella pietra, che permettono di vivere il paese quasi in verticale, ma è caratterizzato anche da una certa anarchia abitativa: piccoli cancelli privati che interrompono scale, portoni che allo stesso modo chiudono passaggi. In questa scenografia Fabrizio dice al figlio: non è colpa di nessuno, perché la chiave di lettura quando ci sono problemi creati da persone è quella dell’empatia. Figli che hanno ereditato case di genitori, a cui hanno fatto delle migliorie, hanno delimitato uno spazio privato per proteggerlo dagli estranei, senza rendersi conto di precludere l’accesso a una scalinata antica. Non è colpa loro, è un’azione figlia delle circostanze. Un’azione inconsapevole o senza alternative che però va a precludere l’esperienza del visitatore di quel luogo. La domanda che mi sono posto, e che Fabrizio si pone, è quindi: che cosa potrebbe mettere in ordine l’Italia, e fare in modo che tutte i discorsi di fruizione turistica, in cui siamo immersi, possano funzionare?

Se la democrazia non ci riesce, allora privatizzazione sia. Da qui l’idea di un’Italia venduta, o meglio, data in comodato d’uso ad una corporation che, in un arco di trent’anni, faccia funzionare perfettamente tutto ciò che cronicamente ci lamentiamo non funzioni.

 

Suona come una situazione ideale e insieme spaventosa. Mi fai degli esempi concreti?

Prendiamo il sito turistico per eccellenza: Pompei. Qui puoi arrivare con il treno, c’è la navetta gratuita e un sistema sostenibile di riciclo dei rifiuti, gli ingressi sono a pieno ritmo ma il sito è perfetto, tutte le persone che ci lavorano sono retribuite in modo equo. Insomma, l’efficienza completa che si vorrebbe realizzare anche nelle nostre zone, nelle intenzioni, ma senza successo. Che poi, una privatizzazione parziale noi la stiamo già vivendo: penso al sistema privato delle banche, al nostro essere parte dell’Unione Europea e dell’unione monetaria, e quindi all’essere molto vincolati, seppure nell’alveo dei valori democratici, a certi poteri economici.

 

Quando hai avuto questa visione?

È stato nel 2019, prima della pandemia, prima dell’attuale governo. Precisamente in quell’estate di balletti politici al governo del Movimento 5 Stelle e della Lega, e in cui l’Italia sembrava ingovernabile. L’istinto dello scrittore è stato quello di raccontare quale poteva essere l’alternativa, la soluzione.

 

Istinto dello scrittore ma anche del politico: Gatti ha infatti corso come Sindaco di Vaglio Serra, dove attualmente vive, nel 2018

Fare gli amministratori dalle nostre parti è divertente, ma comporta anche una bella quota di buona volontà, perché si hanno gli stessi problemi che si avrebbero in una realtà più grande ma con meno risorse. Senza quell’esperienza politica non avrei certamente avuto l’approccio giusto con cui raccontare questa storia. Insieme alla consapevolezza di come si organizzano e si fanno funzionare le “macchine” degli eventi culturali, e in questo mi ha aiutato l’essere stato direttore per cinque anni di Libri in Nizza. Inventare eventi è un po’ come inventare storie, la creatività alla base è la stessa. Il raccontare, tuttavia, ti svincola dal realizzare: con la stessa forma mentis racconto una storia di fantascienza. È molto divertente.

 

Un divertimento che ha portato a casa un posto tra i finalisti del Premio Urania 2021. Niente male

Era una storia che mi portavo dentro da quanto sono stato a Scilla, ma di cui ho sempre rimandato la stesura. Nel 2020 mi sono deciso e ho iniziato a darle forma: la sentivo come urgente, era il suo tempo. La soddisfazione più grande è stata per me il sapere di aver fatto qualcosa che non avevo mai visto nei precedenti Premi Urania: rifiutando la trama gialla, ho voluto mettere qui dentro il viaggio dell’eroe. Mi sono esposto molto in una storia così politica, perché ci ho messo dentro opinioni e visioni personali.

 

Una cosa che mi ha colpito molto del libro è il partire da un’ambientazione di provincia profonda, quando di solito immaginiamo i luoghi della fantascienza come molto metropolitani. C’è la ruralità, c’è la cultura, c’è la politica con una visione globale

Sono proprio le mie identità professionali e personali che sono andate a collimare in questo mix. E qualche felice intuizione: ad esempio, nella prima parte del racconto, il protagonista Augusto Arconte fa il cacciatore di IP (proprietà intellettuali) di qualsiasi genere e di qualsiasi rilevanza. Se pensiamo alla pervasività che l’intelligenza artificiale ha raggiunto oggi nella produzione di contenuti digitali, questo tema diventa ancora più attuale. Tutto ciò che è riconoscibile e originale diventa prezioso, come dominio di senso.

 

C’è una deriva distopica in questa storia di fantascienza all’italiana? E lo dico nella migliore accezione del termine

Ugo Rapetti, con una riflessione personale, sostiene che questa Italia del 2058 può essere intesa sia come un’utopia che come una distopia, a seconda del lato da cui la si guarda. La democrazia in cui viviamo, seppure con derive capitaliste, ci ha permesso di ottenere diritti, come quello all’aborto, che in una situazione di efficienza ideale devono essere ancora più tutelati. Questo per certi versi è spaventoso. Così come quando già oggi, riferendosi alla nostra tradizione enogastronomica e a chi viene a farne esperienza come turista, si sente parlare di authenticity, in nome di un brand territoriale presentato come puro. Ecco, un pochino rabbrividisco.

Utopia e distopia sono le due facce di un’unica storia, con cui mostrare un mondo possibile ma senza giudicare, perché non ho un’opinione compiuta dei due volti della storia. Ma non credo nemmeno che possa esistere, è un’oscillazione continua. La speculative fiction può mostrare un percorso, rappresentare in modo realistico uno scenario possibile, e questa è la sua vera forza.

 

Un tema politicamente divisivo che affronti nel libro?

Cavalcando le polemiche delle ultime settimane, nel Protocollo Scilla ci sono le carni coltivate. Penso che ad un certo punto dovremmo arrivare ad essere meno crudeli con le altre forme di vita. Non abbiamo scelta.

 

Oltre ai romanzi, ti cimenti anche a creare graphic novel? Hai degli illustratori di riferimento con cui collabori?

Con Patrizio Evangelisti, disegnatore “mostruoso”, molto potente nel colore, ho realizzato per il mercato francese una graphic novel di fantascienza, Sturm und Drang, in cui una tecnologia organica sostituisce la tecnologia elettronica. Una storia utopica, interessante ma anche un po’ perturbante. In questo momento ho invece pronta una sceneggiatura, che un disegnatore sta illustrando, e che diventerà una sorta di biografia sui generis di Jim Morrison. Ci sono punti di convergenza sorprendenti tra musica rock e fantascienza: una certa estetica fantasy che emerge dalle copertine di molti album celebri, come quelli dei Genesis ad esempio.

 

Sei uno dei pochi italiani che pubblicano letteratura fantascientifica in inglese per il mercato anglofono. In cosa differisce da quello italiano?

Dopo qualche anno di pubblicazione all’estero ho realizzato che, in quel contesto, l’unica cosa che conta davvero è scrivere la storia migliore possibile nel modo più personale possibile. Non m’importa chi sei o da dove viene, ma solo cos’hai da dire di diverso rispetto agli altri. Negli Stati Uniti il mestiere dello scrittore ha una dignità economica molto superiore rispetto all’Italia: e accade che la componente economica svincoli completamente la parte artistica, permettendo una maggiore libertà espressiva.

Qui, in un’altra epoca, avrei potuto essere un pulp writer di quelli che scrivono tanto, buttano fuori storie e riescono a costruirsi un pubblico. Oggi però è più difficile, i pulp magazine e le riviste che intrattenevano a basso costo non ci sono quasi più, e la nostra attenzione è fagocitata dai social e dal web. Ma la scrittura e il fumetto possono ancora costruire storie complesse, anche in Italia. Pensa alle tante graphic novel di successo.

 

Un "profilo" dei tuoi lettori?

Sicuramente i miei coetanei “nerd”, ma anche insospettabili che spaziano tra generi diversi — ne ho avuto conferma proprio in Biblioteca a Canelli — e, in crescita, i giovani adulti. Se si parla di fantapolitica, dopo il Trono di Spade si pensa immediatamente a giochi di potere, tradimenti, personaggi crudeli ed efferati, un cliché diventato commerciale. Nel Protocollo Scilla l’intrigo politico non è così importante come il percorso personale del protagonista Augusto, ed è questo che in fondo appassiona.

 

L’ultima cosa curiosa che hai scritto?

Mi viene in mente una flash fiction, letteralmente una microstoria di meno di mille parole, genere molto forte sul mercato anglosassone e che mi diverte tantissimo perché permette di giocare con forme narrative diverse. Si tratta di un racconto che ho inviato ad un magazine britannico, ora in attesa di pubblicazione: sostanzialmente un modulo da compilare in caso di invasione aliena, scritto in linguaggio burocratico, apparentemente normale ma in realtà già scombinato e compromesso dagli invasori. Stai compilando il modulo e, ops, è troppo tardi, l’invasione è avvenuta.

 

Prendiamo un ragazzo che voglia vivere di scrittura. Cosa gli consiglieresti?

Diffidare dagli scrittori di successo che vendono il sogno “facile” di vivere con le storie. La scrittura richiede tanto tanto lavoro. Scrivere, correggere, buttare, riabbozzare. In questi anni credo di aver accumulato centinaia di racconti. Con la pratica si impara anche a prendere le misure del tempo che una storia richiederà, fin dall’incipit. Nella scrittura c’è la creatività, c’è l’entanglement delle idee che collidono, però poi è duro lavoro. Per la consegna dei miei ultimi dodici racconti ero arrivato a scambiarli e a scriverli in modo alternato per ottimizzare i tempi e non perdere di creatività.

 

Un’idea per portare il tuo mondo letterario più vicino alle nostre zone?

Vorrei realizzare una piccola fiera di comics dalle nostre parti, o un festival di letteratura fantastica, magari nella location di un castello, da far crescere anno dopo anno. Ci sto provando da un po’, e penso che sarebbe bello far trovare vicina ai lettori quella creatività italiana che c’è, seppure nascosta. A partire da Licia Troisi, forse la più conosciuta scrittrice fantasy italiana. Il pregiudizio da sovvertire è che rivolgersi ad un pubblico giovane, quello dei ragazzi, sia sminuente. Non c’è niente di più sbagliato.

 

Infine, un consiglio di lettura per chi voglia avvicinarsi al fantasy

Pensando ad autori stranieri, consiglierei sicuramente la trilogia The Collapsing Empire di John Scalzi, autore di origini italiane che ho conosciuto personalmente. E poi la trilogia di Mistborn di Brandon Sanderson, mai promossa abbastanza. Pietra miliare della letteratura fantastica dal sapore sarcastico è però sempre Guida galattica per gli autostoppisti di Douglas Adams.

Per gli italiani, attenzione a Christian Antonini con Arvis delle nubi, uscito quest’anno per Giunti: ha una confezione fantasy che guarda ai ragazzi ma è rivolto in realtà anche agli adulti, che sempre più apprezzano queste forme espressive.

Dal lato saggistica, l’ultima uscita di Chiara Valerio per le Vele Einaudi, La tecnologia è religione, è una vera rivelazione. E sempre per una scrittura al femminile, da cercare assolutamente nei mercatini dell’usato, le storie di Leigh Brackett, regina della fantascienza americana.

Per approfondire

Il Protocollo Scilla di Fulvio Gatti, Raptor Books 2022

Il libro è disponibile su richiesta in edizione cartacea a tiratura limitata.

In formato e-book presso tutte le principali piattaforme online.

 

Fulvio Gatti – Galactic Fiction

www.fulviogatti.it

fulvio@fulviogatti.it

Valeria Guglielmi


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