La voce blu: ritrovarsi nella poesia
Un viaggio lungo venticinque anni. Personaggi e ruoli, difficoltà e ricerca. Amore.
“Questa è la storia di chi ha perduto la propria anima e la cerca nei frammenti sparsi, nei corpi di chi incontra, dando un senso con i sensi, sangue e voce ai personaggi, alle pagine dei libri, nell’urto del mondo, nella tristezza senza nome [...]”, scrive Andrea Bosca, attore canellese, che ha racchiuso in un libro tre fasi della propria esistenza, tre svolte della propria vita, ripartenze e rivelazioni, un percorso per unire bellezza e conoscenza, un respiro vitale che, “a metà della vita”, lo ha portato a comporre “La voce blu”.
Sicuramente un veicolo differente per esprimere la propria visione artistica, ma un mezzo che condivide con la recitazione, col cinema e col teatro il piacere per la letteratura.
“La voce blu l’ho scritta in venticinque anni, l'ho scritta perché mi piaceva la poesia, era la mia materia preferita la letteratura, ho studiato e, attraverso l'amore per la parola, che ho sempre avuto anche per il teatro, sono rimasto colpito, era un modo in cui mi sono sempre espresso nella mia vita privata”, ha raccontato Andrea Bosca, ricostruendo la genesi del proprio lavoro, un labor limae che racchiude un quarto di secolo e un’esigenza: L'ho scritto perché era il mio modo di unire bellezza e conoscenza, un po' per tracciare il percorso della mia vita, un po' per dire 'ho capito questo'. Era un'attitudine che ho sempre avuto, un modo di essere - ha proseguito - In un'età che mi fa sentire a metà della vita, ho pensato che le cose vadano realizzate. Poterle riprendere in mano ha significato riordinarle: non in maniera cronologica, anche se si tratta di tre fasi, tre stili diversi, io e tre persone diverse".
Un concetto, quello del mezzo della vita, molto caro a Andrea Bosca, ritenuto il “suo” momento migliore per mostrare l’evoluzione della persona, le difficoltà della propria vita, “la lotta contro il tuo demone, contro un senso di solitudine, qualcosa che senti schiacciare dentro di te, che ti tiene molto lontano dagli altri o non ti permette di fermarti, fino ad arrivare al momento in cui c'è un confronto con la propria anima, un incontro con il femminile, un ‘tu femminile’ molto forte, meraviglioso, e allora c'è un'apertura inaspettata a una parte gioiosa e a un amore molto profondo, danzante”.
In queste sue parole salta presto all’evidenza il duro scontro tra una perdizione interiormente mortale e la vittoria di un Amore che ritrova la vita; la sua possibilità, dopo un periodo cupo e di grande vuoto, di riscoprire la voce della scrittura.
Un suono rinato grazie alle vecchie poesie che ha racchiuso in questo libro e che ha risvegliato quella passione di cui, come ha raccontato, ha bisogno.
Molto importante, poi, il ruolo dell’espressione, trovare un veicolo per esternare i propri pensieri e la propria forza: “È molto importante perché un giorno tutto questo non sarà garantito, ci saranno milioni di possibilità, di opzioni, di voci, e ci si potrà perdere in questo marasma di cose non tue. È invece importante avere un rapporto profondo con questa parte che sembra tanto tua e invece è la parte di tutti, è dell'anima”.
Un discorso che guarda molto al presente, che sostiene un pensiero di cultura salvifica contro “un’epoca di conflitti scoppiati all’esterno, in ogni campo”, un percorso alla ricerca di sé e della propria voce, che va intuita, perché d’un tratto, quasi all’improvviso, può smettere di cantare.
Belcanto: l’arte di coltivare il talento e di emanciparsi
Da un ruolo all'altro, da un'epoca all'altra. In “Belcanto” ci si trova in un Ottocento contraddistinto da passioni, talento, ma soprattutto ombre. Come ci si immerge in una mente così distante dalla propria?
“La serie è ambientata nell'Ottocento, in un mondo in cui farcela significava davvero riuscire a sopravvivere, una questione di vita e di morte e di emancipazione femminile - spiega Bosca - ma rispecchia anche molto il presente, dove, ci tengo a dirlo, il banco di prova è un'arte difficile. La lirica ci aiuta a capire che, se non si studia, non ci si applica, non tutti possono farcela perché diventa davvero difficile: la preparazione è dura, l'esecuzione senza sforzo. Questa è una cosa che si ottiene se si è avuta disciplina, se ci si è impegnati, se ci si è lavorato, se interessa”.
In questo mondo, infatti, il discorso del talento fa quasi da padrone, sottolineando lo sforzo enorme nel coltivarlo, ma anche i lati oscuri delle personalità che lo possiedono.
Come nel caso di Giacomo Lotti, interpretato da Bosca, descritto come “un personaggio che non ha consapevolezza del tutto, dei propri errori, assomiglia molto a quei maschi tossici che si sentono in diritto di avere un potere nei confronti delle persone”.
La serie esplora anche il tema della redenzione e dell'emancipazione, in particolare nei personaggi femminili, che cercano il proprio posto nel mondo attraverso l'amore, il talento e le proprie capacità.
"La redenzione è importante perché molto vista anche nei personaggi femminili attraverso l’emancipazione, nel senso di voler trovare un proprio posto nel mondo, no? Un amore, un talento, una capacità di contare per quello che sai fare".
"La bambina con la valigia" e l'importanza di raccontare la guerra dal punto di vista dei civili
L’ultimo film di Andrea Bosca per la televisione, invece, riporta lo spettatore al dramma delle Foibe e al ritratto di una bambina, Egea Haffner, simbolo dell'esodo giuliano-dalmata, immortalata in una foto con una valigia in mano. Era il 6 luglio 1946.
“La bambina con la valigia” inizia nel 1944, quando i bombardamenti colpiscono la città di Pola, in Istria. La giovinezza di Egea (Petra Bevilacqua) trascorre tra il bunker antiaereo, la dimora dei suoi nonni paterni e il negozio di gioielli del padre Kurt (Andrea Bosca). Al termine del conflitto, in Istria, i partigiani di Tito prendono il controllo, occupando l'intera regione giuliana, precedentemente parte dell'Italia fascista.
La storia parte proprio dalla scomparsa del padre di Egea, probabilmente morto nelle Foibe dopo essere stato prelevato dagli agenti titini.
Si viene a creare, dunque, un rapporto emotivo e affettivo tra la bambina e il padre, anche in sua assenza, divenendo il nucleo del film e legando la protagonista alle proprie radici.
“Il film mi ha permesso di interpretare un padre che tiene molto a sua figlia e di raccontare, in qualche modo, che purtroppo la guerra, da qualsiasi parte provenga, è una guerra che ricade sui civili, sulle vite delle persone disarmate. Mi piaceva esserci perché non c'era la retorica della guerra giusta, no? C'era invece un discorso che aveva a che fare con le conseguenze della guerra sulla vita dei civili - spiega Andrea Bosca, parlando delle emozioni provate nell'interpretare il padre di Egea, Kurt Haffner - La mia partecipazione diventa l'arco del rapporto emotivo e affettivo che legherà per sempre questa bambina alla sua radice, al suo papà”.
Un discorso che si focalizza sulla consapevolezza storica e sulla propria storia personale o, meglio, sulla memoria di migliaia di persone, tra le quali ci siamo anche noi.