Leggendo gli articoli riguardanti il problema del lavoro per le persone con disabilità, recentemente pubblicati su alcuni giornali, si conferma l’abitudine, pessima, di considerare le persone come numeri. Quando questo modus operandi lo si applica alle persone con disabilità, il risultato è ancora più fuorviante ed annichilente.
Si parla di numeri anche in merito alle percentuali che dovrebbero “obbligare” le aziende, pubbliche e private, ad avvalersi del lavoro delle persone con disabilità. Ecco, infatti, il punto sta proprio nel concetto da cui si deve partire per comprendere la differenza tra l’obbligo di assumere qualcuno per ottemperare ad una norma di legge e, invece, la possibilità, l’opportunità di valorizzare le aziende attraverso il lavoro, la competenza, la personalità di una persona, a prescindere dalla fragilità/e che questo soggetto può presentare. Assumere una persona con disabilità non significa fare un favore ad un “povero handicappato”, neppure sollevare la famiglia dalla preoccupazione del “dopo di loro”, almeno dal punto di vista economico. Significa, o almeno dovrebbe essere così, dare un’opportunità di ottenere un introito economico in cambio di un contributo lavorativo che sarà differente sia in termini di necessità da parte dell’azienda e sia per le capacità della persona che si sta per assumere. Niente di più, niente di meno.
“Le parole sono importanti”, diceva Moretti. E quando sono scritte, nero su bianco, lo sono ancor di più. Scrivere su un bando di concorso, per di più di un ente pubblico, che alcune forme di disabilità saranno escluse dalla possibilità di partecipare al concorso stesso è palesemente discriminatorio e clamorosamente anticostituzionale, oltreché illegittimo. Il tentativo, alquanto maldestro, di nascondere il misfatto dietro un’apparente e paternalistico senso di “protezione” nei confronti di quei “poverini che non riuscirebbero a svolgere le mansioni richieste…”, Risulta essere una toppa peggiore del buco.
Le forme di disabilità sono differenti, ma anche le persone lo sono allo stesso modo. Sembra persino superfluo ribadire ancora che le forme del disturbo dello spettro autistico sono molteplici, come anche le problematiche legate alle disabilità intellettive. E che dire delle nevrosi o delle depressioni? Sono disabilità considerate di tipo relazionale oppure sono malattie “moderne”? I sordi non sono necessariamente anche muti e, tra di essi, chi conosce la lingua dei segni (e non il linguaggio…) È escluso, oppure no?
Ma il vero punto del problema è ancora un altro perché la giusta prospettiva dovrebbe essere quella di dare la massima apertura possibile nei confronti di coloro che partecipano al concorso per poter valutare durante le prove chi detiene i requisiti per poter accedere alla mansione prevista, a prescindere dalla disabilità che il soggetto presenta.
Durante la mia esperienza lavorativa di persona con disabilità ho potuto constatare quanto il mio stesso profilo professionale sia cambiato nel tempo grazie allo studio, all’impegno personale, ma soprattutto grazie alla disponibilità dei colleghi, dei dirigenti e dell’ambiente di lavoro in generale che hanno messo in campo tutte le soluzioni possibili per poter migliorare le mie performance al fine di dare un maggior e miglior contributo lavorativo all’azienda. Questa strategia dovrebbe essere messe in campo per tutti i dipendenti delle aziende, persone, non numeri, con o senza disabilità.
Da tempo, ormai, avremmo dovuto imparare a ragionare in modo differente. Non è la disabilità in sé a rappresentare un ostacolo per lo sviluppo delle persone, bensì l’ambiente circostante, con le sue barriere architettoniche, culturali e mentali che determina l’impossibilità di sviluppare appieno la propria capacità di interagire con il mondo circostante. Il compito precipuo della società è quello di abbattere queste barriere, non certo di crearne ancor di più.
Che poi, conoscendo la sensibilità dei singoli, verrebbe da dire che ci si fa del male da soli tentando di arrampicarsi sugli specchi pur di non ammettere, con pacata autocritica, che si è commesso un errore (grave), al quale si rimedierà immediatamente. “Le parole sono importanti…”
Marco Castaldo