Canelli - 07 giugno 2023, 07:25

Verso Terre da Film: quest’anno si parla di ambienti viventi, tra comunità e integrazione

Novità e anticipazioni sulla terza edizione, dal 7 al 9 luglio nel cinema a cielo aperto delle piazze di Canelli

Una serata di proiezioni nella scorsa estate

Alberto Danelli e Matteo Ussia sono parte dell’associazione culturale che da tre anni organizza "Terre da Film", un festival che raccoglie e premia i migliori cortometraggi internazionali, diventato in brevissimo tempo, e in modo un po’ sotterraneo, l’evento più atteso e sperimentale dell’estate canellese. Li incontro un pomeriggio di vento e sole primaverile, di quando non ti aspetti che sia così caldo, sotto il platano monumentale di piazza Cavour, che neanche a farlo apposta è uno dei punti di riferimento più potenti della città.

Terre da Film è un germoglio di festival metropolitano innestato fuori dalla sua zona di comfort. Com’è nata l’idea?

Frequentando città universitarie diverse – come Torino, Milano, Bologna, ecc. – ci siamo ritrovati dentro a eventi di questo tipo, dove si sperimentano cose e con variabili infinite di declinazioni, che contengono intrattenimento, certo, ma insieme contaminazione culturale tra le parti dell’ambiente in cui esistono.

Una volta tornati a casa ci siamo resi conto che qui non c’era niente del genere, e che un festival così inteso avrebbe potuto dare qualcosa alle persone che qui abitano, qualcosa che altrimenti non avrebbero potuto conoscere.

Come collettivo siamo appassionati di cinema e di audiovisivi in generale, alcuni studiano discipline umanistiche, altri più artistiche, ma tutti amiamo questi posti e il senso di condivisione che si crea quando si organizzano cose insieme che funzionano per la comunità.

Tutto nasce dalla casa della nonna di Alberto, una casa in campagna che è stata il nostro rifugio durante il Covid, lontano dalla claustrofobia di Milano. Lì è nata l’idea personale di fare qualcosa in questo luogo, a Canelli, di sperimentare. E i primi tempi è stato proprio un “portare qualcosa” dalle grandi città, portare qualcosa di nostro.

Questo è stato sicuramente un aspetto negativo all’inizio, nel senso che abbiamo avuto l’impressione di essere stati percepiti fin da subito come gli esterni che arrivano e piazzano un corpo estraneo nel bel mezzo dell’estate.

Ora, giunti alla terza edizione, abbiamo consolidato la consapevolezza dell’importanza e del significato del lavoro che regge questo genere di eventi: prima di tutto lo studio del luogo, dei gruppi sociali che lo popolano, e poi capire che cosa fanno, dove si riuniscono e quando di solito, quali sono i riti e che cosa fanno insieme, il tutto per cercare di creare progetti che li coinvolgano.

In questo modo ci siamo accorti, ad esempio, che c’è una grossa componente macedone, c’è una buona componente africana, una subsahariana, e poi ci sono gruppi che non ti aspetteresti come il Coro Alpino. Tutti vivono lo stesso luogo eppure non si conoscono tra loro, non si intercettano. Come comparti stagni, non sono quasi mai coinvolti contemporaneamente negli eventi del territorio.

Canelli ha una superficie abbastanza estesa, è una cittadina importante con i suoi diecimila abitanti, però è difficile trovare qualcosa di coinvolgente per tutta la comunità. Cosa che accade in altre zone, magari più piccole ma più coese, dove sono nati eventi più partecipati.

Sappiamo che il rischio dei festival è quello di essere precipitato dall’alto come un’astronave nel luogo in cui si svolge. Ed è proprio per questo che per noi il lavoro più importante che c’è dietro è quello di inserirsi davvero nel tessuto sociale del posto, nel creare valore condiviso ed esperienze di comunità.

 

Luogo, spazio, contesto. Parole che ritornano e orbitano attorno al tema che quest’anno avete scelto per il concorso di cortometraggi ma anche delle attività collaterali: gli ambienti viventi. In quali sensi?

Lo intendiamo in una dimensione tutta filosofica (ndr. Matteo ride, studia filosofia). Noi viviamo uno spazio e lo abitiamo, agiamo, parliamo, facciamo cose, in una misura che è condizionata anche dal posto in cui siamo, dalle condizioni ambientali che presenta, e, viceversa, il luogo che viviamo sarebbe diverso se fosse popolato da persone diverse.

C’è una reciproca interconnessione, un abitare nel senso più pieno del termine ovvero esperire uno spazio. L’ambiente “Terra” è il contenitore generale ma tutte le comunità locali possiamo intenderle come microambienti autoregolanti, che ritrovano continuamente il loro equilibrio in funzione delle diverse dinamiche che li governano. Lontano dall’aura negativa e paternalistica che caratterizza la maggior parte di ciò che viene detto nel comunicare l’emergenza climatica, attraverso i cortometraggi volevamo far esplorare ambienti viventi diversi e lontani da noi.

Ad una scala maggiore, il festival stesso vuole diventare ambiente, come un microcosmo con i suoi propri abitanti: cioè un luogo e un tempo autonomi rispetto al resto ma che vive di chi lo abita, e allo stesso tempo lascia qualcosa a chi lo ha abitato. Tentativo non da poco!

 

Tentativo ambizioso. In realtà siete già riusciti a creare una bolla di respiro, uno spazio interculturale ricorrente, dove tutti possono interagire. C’è qualche novità rispetto alle scorse edizioni?

Il grande cambiamento di quest’anno è che ci sposteremo dal campo del Vice, che è stato la nostra casa nelle scorse edizioni, verso due spazi centralissimi, ovvero Piazza Cavour, dove proietteremo i corti in concorso, e Piazza Amedeo d’Aosta, dedicata ai corti per bambini. Tre serate quindi, il 7, l’8 e il 9 luglio, con due schermi.

Tutto intorno al cinema ci saranno piccoli stand tipici, tra cui i tavoli con sartoria africana a cura del centro culturale Intrecci, e poi un collettivo di artisti (e amici), i Ciao Mare Baci: sono musicisti e designer che organizzano serate neofolk con giochi da sagra. L’aspetto ludico è un grande aggregatore, un potente motore di interazione che servirà per far conoscere tutte le parti che parteciperanno al festival.

Nella terza serata, la finale, ci sarà una festa conclusiva performance di danza e arte, e una cena aperta alla comunità. Il cibo crea aggregazione e convivialità, in modo trasversale a tutte le culture e le età, ci sembrava quindi un bel modo per concludere insieme.

Lo stesso spostarci dal campo del Vice, che è un luogo chiuso, un bel contenitore ma in certo modo isolato, all’ambiente “piazza”, per sua natura luogo di ritrovo ma anche di passaggio, è finalizzato a creare delle dinamiche ambientali inedite. Un effetto matrioska.

 

La vostra è un’operazione di placemaking in piena regola: rendere due piazze della città sale cinematografiche è lavoro che reinventa profondamente senso e significato di un luogo per la comunità.

Siamo fiduciosi. Potrà essere molto bello oppure un totale fallimento (ndr. ridono). È il terzo anno e abbiamo deciso di uscire dalla nostra zona di comfort per consacrare il festival, vogliamo osare. Speriamo nell’entusiasmo che le persone ci hanno dimostrato gli scorsi anni.

 

Qual è la geografia di provenienza dei corti che vi sono arrivati?

Andiamo dall’India al Canada, dalla Nuova Zelanda all’Italia, con un sacco di cechi e tantissimi coreani. Vedere cortometraggi che arrivano dall’altra parte del mondo permette di accorgersi della nostra resistenza nei confronti dell’estraneo, che ha senso in funzione difensiva.

Vedere un corto orientale ti fa rendere conto immediatamente di quanta differenza ci sia sul piano estetico, linguistico, narrativo, e riuscire ad apprezzare qualcosa che è molto diverso da te è estremamente più complesso rispetto all’apprezzamento di qualcosa che ti assomiglia culturalmente. Dall’altro lato è rassicurante vedere che i temi, le problematiche, i valori, si possono ritrovare uguali ovunque, come nuclei di senso fondamentali comuni a tutte le culture.

 

Ambiente in senso lato abbiamo detto. Ma quali sono gli aspetti più rappresentati dai cortometraggi in concorso?

La maggior parte sono accomunati dal fatto di svolgersi interamente in un unico ambiente. Uno spazio solo per differenti individui, con le relative variabili di comportamento che concorrono a dare forma a quel luogo, in un modo unico che è il risultato di soltanto una delle infinite combinazioni possibili.

Ce un corto che è ambientato nel bagno femminile di una discoteca, un altro ambientato in una casa che deve essere venduta ma che nasconde un legame misterioso con il personaggio che dovrebbe venderla… I luoghi sono parte fondamentale della nostra esperienza come esseri umani, vivendoli li modelliamo a nostra immagine, ed è inevitabile che in essi si annidino affetti e attaccamenti emotivi. Questo è sicuramente un elemento ricorrente.

C’è poi un docufilm, sempre in forma di cortometraggio, che racconta di un villaggio costruito ai piedi di una diga in Canada, un luogo dove gli abitanti convivono con l’acqua per strada e con il pericolo costante che la struttura ceda, spazzandoli via. Eppure, quel posto è amato come se fosse il più bello del mondo. La morale è che ogni luogo, se impari ad abitarlo (nel senso più pieno del termine), finisci per amarlo.

Spesso diamo per scontato ciò che ci circonda: viviamo in un luogo ma finiamo per non abitarlo davvero perché lo vediamo con gli occhi assuefatti da local. Allontanare lo sguardo e rivolgerlo verso ambienti altri renderà più straordinario il fascino delle terre che abitiamo quando ritorneremo. E sapremo così prendercene cura in un modo migliore. È il meccanismo per cui dovrebbe passare anche la tutela del nostro pianeta.

 

Guardando oltre l’orizzonte del festival, mi avete raccontato che non siete mai fermi, perché per creare comunità occorrono eventi periodici e progettualità di lungo periodo, che mantengano vivo il dialogo. A cosa state lavorando?

Al momento siamo impegnati nella preparazione di un cortometraggio, ma potrebbe poi diventare una trilogia, che ha l’obiettivo di coinvolgere i vari gruppi e di portarli a stare insieme attraverso musica, danza, cinema, cibo, mantenendo quindi lo stesso leitmotiv del festival.

Dalla scorsa edizione stiamo lavorando in modo totalizzante nella produzione, non senza problemi, ma sappiamo che richiede tempo e sedimentazione. Prevediamo quindi di girarlo l’anno prossimo. Sarà un dance film, una forma dell’espressione cinematografica che utilizza la danza, il movimento del corpo e della musica per comunicare, come linguaggio e medium.

C’è dietro il progetto di una coreografa russa, che si è innamorata di Canelli, e vorrebbe restituire il punto di vista dell’estraneo per eccellenza, dell’outsider. Per questo coinvolgeremo proprio le persone reali, del luogo, stiamo iniziando proprio in questi mesi. Il cast sarà misto tra professionisti e non, contaminato il possibile con il contesto. Non vogliamo usare solo attori ma soprattutto abitanti di qui, persone che vivono queste piazze.

Proprio a luglio, subito dopo il festival, faremo un workshop – che sarà anche un casting, per cui occhi aperti – in cui coinvolgeremo sia performer che locali, come il Centro Studi Danza di Canelli, con Elena Schneider, e poi il Coro degli Alpini, alcuni musicisti macedoni e tanti altri. Amalgamare tutte queste parti differenti che compongono la comunità è, in fin dei conti, un lavoro educativo.

Ognuno scopre e capisce reciprocamente l’altro da sé nel momento in cui conosce la maniera completamente diversa di abitare lo stesso luogo o di fare le stesse cose che l’altro ha. Non c’è un modo giusto o sbagliato di vivere lo spazio ma semplicemente modalità differenti che possono convivere, conoscersi, condividere. È pura integrazione, tanto interculturale, con le comunità straniere, quanto intergenerazionale, tra giovani e anziani.

Serve la giusta disposizione d’animo per rompere questo meccanismo di diffidenza, serve uno spazio “neutro”, un luogo, un tempo, in cui tutti finiscano per sentirsi parte della stessa cosa. Questo è lo spirito che regge l’architettura di tutto il nostro progetto e che cercheremo di realizzare anche nell’edizione di quest’anno.

 

Mi avete raccontato che la chiave educativa del festival si declina poi in attività durante tutto l’anno ed entra nelle scuole per insegnare attraverso il cinema. In che modo?

Nelle scuole superiori partecipiamo spesso alle co-gestioni e organizziamo attività di avvicinamento all’audiovisivo, in particolare al cortometraggio. Proiettiamo i lavori migliori selezionati nelle diverse edizioni del festival, e presentiamo il progetto Terre da Film per coinvolgere i ragazzi e farli diventare parte attiva di qualcosa di importante per la comunità in cui vivono.

Proviamo a educare ad abitare, nel modo più innovativo possibile, attraverso il linguaggio del cinema contemporaneo. I ragazzi rispondono bene e infatti molti dei volontari che ci accompagnano durante il festival sono liceali.

A questo proposito, quest’anno stiamo provando a riunire una giuria studentesca con un premio speciale dedicato. Questa si affiancherà alla giuria tecnica, che vorremmo rendere per la prima volta local, e alla giuria popolare ovvero il pubblico che assiste alle proiezioni e vota sera per sera.

 

State diventando un nome tra i festival di cinema indipendente che popolano l’Italia, ma non solo. Prima di salutarci, mi dite quali sono i piani per il futuro?

Potremmo esplorare altri luoghi o diventare addirittura itineranti! Non è vero, non lo sappiamo ancora. Per il momento ci dedichiamo a questa edizione, nell’attesa di vedere come va, e alla produzione del nostro cortometraggio, che assorbe molte delle nostre energie.

Intanto stiamo cercando di fare alleanze con altri festival in Italia e in Europa, che rappresentano e danno voce alle istanze di diverse culture. Pensiamo che fare rete sia importante per poter proporre un’esperienza davvero multiculturale e arricchente, introvabile altrove.

Per approfondire https://www.terredafilmfestival.org/