Per accompagnarti nella lettura di questa intervista ti consiglio la canzone Il ballo delle incertezze, di Ultimo, contenuta nella playlist "Orgoglio Astigiano" su Spotify
L'Orgoglio Astigiano si sta diffondendo.
Come una macchia di olio, va man mano allargandosi, infilandosi tra le fibre di quel tessuto sociale che prima pensavamo impenetrabile.
E invece, è bastato affacciarsi alla finestra, conoscere volti nuovi, uscire dalla propria confort zone per trovare un nuovo equilibrio.
Un ragionamento che ho condiviso con Laura Binello. Ve lo racconto, ma prima ve la presento.
Laura, classe 1964, astigiana, è infermiera all’Ospedale Cardinal Massaia. Mamma di Marco e Fabio, è appassionata di medicina narrativa ed è autrice di libri.
Laura, che rapporto hai con l'Astigiano?
Sono molto legata a questi territori. Sono nata ad Asti. Asti è la mia città, anche se ho avuto un'esperienza ventennale nel territorio Asl dell'Asti Sud, attraverso le cure domiciliari di Costigliole, Castagnole Lanze e Coazzolo.
Il tuo posto del cuore?
Castagnole Lanze. Oltre ad averci lavorato, ci ho anche vissuto. Quando mi sono separata da mio marito, ho scelto di vivere lì, in uno dei borghi più belli d'Italia. Questo piccolo paese mi ha accolta come infermiera condotta. Oltre ad avermi presa per mano come inferiera del territorio, mi ha adottata come persona che ricominciava a vivere da sola. È un paese famiglia, che mi ha voluto bene per sei anni. Credo di aver dato molto in termini di assistenza, ma mi sono sentita curata e accolta da questo paese. Tre anni fa sono tornata ad Asti per altre esigenze e devo dire che amo molto anche Asti.
Un paese fratello che accoglie anche le nostre fragilità
Nelle parole di Laura si percepisce un grande amore per l'Astigiano, terra che ha saputo accogliere lei insieme al suo bagaglio di emozioni e fragilità. E non c'è posto migliore di un paese fratello, che ovunque tu vada, continuerà ad aspettarti e a riservarti la stessa accoglienza di sempre.
Secondo te, cosa servirebbe ad Asti per amarsi un po' di più?
Asti secondo me è una città che troppo spesso vive all'ombra di città ricche turisticamente, come Alba. Ma in Asti in senso artistico ci sono belle persone, anche tra i giovanissimi. Questo devo dire di averlo scoperto grazie alla tua rubrica. Persone di talento che, però, magari non trovano la strada per realizzare il loro sogno. Secondo me Asti ha bisogno di aiutare i giovani a trovare questa strada: le possibilità ci sono. Si sta facendo un lavoro di protezione e ricerca di talenti astigiani: il percorso è iniziato, ma serve portarlo avanti.
A livello concreto?
Penso ai giovani e vorrei proteggerli, così come nella mia professione. Secondo me Asti ha bisogno di funzionare come talent scout: cercare elementi e promuoverli attraverso eventi, manifestazioni. Basta cercarli e portarli alla luce, farli conoscere alla popolazione.
Come nasce la tua passione per la medicina narrativa?
Prima di tutto nasce la passione per la scrittura in senso generale e accade all’età di 10 anni quando, dopo le scuole elementari, iniziai un processo inconsapevole di scrittura creativa che negli anni a venire mi avrebbe poi sempre accompagnata. Erano gli anni dove nei temi in classe non si sapeva mai cosa scrivere e io, oltre a saper cosa scrivere nei miei temi, aiutavo anche i miei compagni che erano più a corto di idee narrative.
Cosa significa per te scrivere?
La scrittura da sempre per me ha rappresentato un altro modo di comunicare, più intimo, scevro da condizionamenti o ricerca di consensi, anche se i consensi scolastici arrivavano e si traducevano in piccole esperienze editoriali stimolanti , come la creazione di una rivista scolastica, piuttosto che piccoli progetti creativi destinati a noi ragazzi.
Cosa succede nel 1987?
Nel 1987 mi diplomo infermiera e la passione per la scrittura creativa sembra lasciare il posto alla passione professionale: il mestiere che ho scelto è tanto faticoso quanto affascinante e ben presto la capacità del prendersi cura di un corpo ammalato si trasforma, evolve, e diventa l’arte di prendersi cura della relazione empatica con il paziente. È negli anni a seguire che inizia per me una nuova fase creativa: le storie di cura che incontro nel mio cammino professionale sono così intense e irripetibili che decido di non perderne la memoria. Come? Scrivendo.
Raccontare storie di cura, per non perderne memoria
Per dieci anni circa raccolgo quindi le storie di cura che hanno segnato il mio percorso lavorativo e la mia crescita personale e professionale, riempio dapprima interi quaderni scritti a mano, poi arriva internet e decido di custodire quel materiale umano dentro file sempre più grandi.Nel 2010 nasce il blog che vedrà condivise con la popolazione social i contenuti dei racconti che nel mentre sono diventati moltissimi. Nel condividere la mia scrittura saranno gli altri, colleghi e medici soprattutto, ad avvicinarmi al concetto di “medicina narrativa” che per me era astruso, incomprensibile.
Come arriviamo alla Medicina Narrativa?
Mi fu chiesto se alcuni dei miei racconti potessero essere utilizzati in convegni sulla MN (Medicina Narrativa) e io accolsi l’invito decidendo però di approfondire quella materia che mi appassionava ma che non conoscevo. Compresi quindi che io, da autodidatta , utilizzavo quasi inconsapevolmente un metodo di lavoro e di ricerca, grazie al quale è possibile sviluppare una maggiore consapevolezza di se stessi e del proprio ruolo e costruire un rapporto empatico tra sanitario e paziente. Negli anni a seguire mi fu chiesto di partecipare a molti eventi sulla Medina Narrativa e di raccontare il mio vissuto originale, perché svincolato da quella formazione tradizionale che invece la MN richiede .
Come è nata l'esperienza editoriale?
Nel 2017 pubblico il primo esperimento letterario “Panda rei”: il rapporto con gli altri nella mia vita di bambina e adulta appassionata di scrittura è sempre stato il motore stesso delle narrazioni che sono diventate solo in seguito due progetti letterari. Senza gli altri, intesi come protagonisti delle narrazioni, credo che non avrei mai scritto neppure una frase. Panda rei è quasi un motto ormai, molti colleghi medici e infermieri quando mi ‘incontrano nei corridoi dell’ospedale, mi salutano con “Ciao Pandarei”. Panda rei è la mia macchina, la mia utilitaria, utile per arrivare dentro le storie di cura, una piccola autovettura che non ha prestazioni eccezionali, ma va dove deve arrivare, consuma poco, e non teme il maltempo e le avversità.
E l'esperienza del Covid e del lockdown?
Nel 2020, mentre siamo completamenti immersi in una pandemia devastante, molti amici infermieri italiani mi scrivono delle loro drammatiche esperienze di assistenza in un territorio che parte dalla bergamasca ( dove ho molti amici cari) ma che trasversalmente si allarga a macchia d’olio in un’Italia ferita da nord a sud. Una collega e amica dirigente infermiera in zona bergamasca mi chiede di aiutare i moltissimi colleghi a rischio burnout che hanno l’urgenza di raccontare, di buttare fuori, di condividere le loro esperienze e che avevano perso la voce per farlo, presi com’erano a salvare vite. Decidemmo insieme di costituirci “call center” infermieristico a favore di chiunque avesse bisogno di supporto emotivo, raccogliemmo lunghi messaggi vocali, email, materiali che in brevissimo tempo costituirono un immenso patrimonio professionale e umano che non poteva andare disperso.
"Covid ergo sum"?
Nelle lunghe giornate di lock down decidemmo ( con Cinzia Botter collega bergamasca in prima linea con il Covid) di scrivere il secondo libro: “Covid ergo sum”. Un racconto onesto e intenso dei mesi più terribili della pandemia, quelli del tempo sospeso e delle terapie intensive sature. Le parole sono degli infermieri italiani che hanno vissuto sulla loro pelle, portandone i segni, l’emergenza sanitaria. I corpi svestono le tute protettive, i guanti, le mascherine e finalmente si mostrano senza filtri. Scompaiono gli eroi e restano soltanto delle persone che avvertono la necessità di guardare e toccare l’umanità ferita. Il dramma sanitario globale diventa così l’occasione per diventare testimoni di una storia e per costruire una memoria da cui ricominciare.
Come ti definiresti oggi?
Molti mi chiedono se io mi consideri più un’infermiera o una scrittrice. La risposta è che certamente io sono un’infermiera che scrive, ma la definizione che più sento mia è quella di essere una “contadina della cura”, dove il mio foglio bianco è un grande campo appena arato su cui gettare semi di cura. Il tempo, il sole, la mano buona dell’uomo faranno il resto.