Per accompagnarti nella lettura di questa intervista ti consiglio il brano Canzone contro la paura, di Brunori Sas, contenuto nella playlist "Orgoglio Astigiano" su Spotify
Incontro Marina Occhionero davanti a un caffè.
Non faccio in tempo a tirare fuori il cellulare e aprire un nuovo foglio di Note, che lei mi ha già messo sul tavolo il concetto principale per cui l'avevo contattata.
Era la prima volta che prendevamo un caffè insieme.
Inizia un'analisi sul senso di appartenza. Mi fermo. Tira fuori dalla borsa un quadernetto blu con qualche ghirigoro bianco. Lo chiama "Coltivare memoria". Ci scrive riflessioni varie sul territorio, l'appartenenza, il sentirsi a casa. Mi fermo di nuovo.
Marina è un fiume in piena: le sue parole travolgono il piccolo mondo interiore di chi le ascolta, in maniera talmente potente da essere, paradossalmente, delicatissime. La delicata forza di Marina è ciò che mi colpisce di più. Le chiedo di riavvolgere il nastro e di partire dall'inizio, come tutte le belle storie. Come quei bei film che ti restano nel cuore.
Marina, partiamo dall'inizio. Partiamo dal Liceo Classico. Ora hai 29 anni. Da più piccola, cosa volevi fare da grande? Cosa sentivi?
Da piccola volevo scappare. In ogni forma. Da sempre, già dal liceo, ero andata un anno in Australia. Ricordo che all'epoca avevo scelto il posto più lontano possibile sul mappamondo. Ero molto confusa per quanto riguarda i miei studi: in un primo tempo volevo studiare Legge come la mia famiglia, poi ho iniziato Filosofia e poi per caso è arrivata l'idea dell’Accademia di teatro.
Nessuna vocazione?
Diciamo che non ho mai avuto una vocazione nel senso artistico, come invece hanno avuto molti miei colleghi. Tra le mie varie fughe esistenziali, ho incontrato persone che mi hanno portata a fare audizioni. Da lì ho capito che quel mondo poteva essere una delle mie modalità di espressione.
Cosa succede dopo il liceo?
Dopo la scuola, trascorro due anni a Roma e uno a Parigi. Inizio a lavorare in questo mondo. Dopo i primi tempi di dispersione totale, di fuga, la mia preoccupazione è stata trovare casa. Avevo bisogno di nuovo di un punto fermo. Ed è stato in quel momento che ho incontrato Bologna, grazie al mio lavoro. Ancora oggi ho casa a Bologna, nonostante il mio lavoro mi porti a girare un po' per varie città, come ad esempio Milano nell'ultimo periodo.
Sei cittadina del mondo, ma cosa significa per te appartenenza?
Rifletto da molto sul senso della parola appartenenza e mi rendo conto di quanto sia un termine fondamentale per ognuno di noi, ma soprattutto per un artista. L’appartenenza forse è strettamente legata alla cultura di un posto. Conoscere da dove vieni ti fa sentire di appartenere a quel luogo.
Quando hai capito, allora, di appartenere ad Asti?
Quando sono andata via. È stato tutto molto strano. Più mi sono spinta lontano e più ho conosciuto in fondo Asti. Quando vivevo in città non la conoscevo così a fondo. È stato quando ho iniziato a guardarla da fuori che ho iniziato anche a capire. Ho cominciato a tornarci con occhi nuovi, più aperti, ho trascorso tempo in bici alla scoperta dei territori. E mi è nata una grande tenerezza, per questi territori e per come sono fatte le persone che ci abitano.
Che strano questo innamoramento...
Sì, mi è successo un po' come spesso capita al liceo. Ti innamori di un tuo compagno di classe che hai sempre avuto vicino, ma di cui non avevi mai compreso il valore prima d'ora. Era abitudine per me il rapporto con Asti, mi era mancata la narrazione di luoghi e persone. Non avendo io la famiglia originaria di Asti, non avevo mai incontrato qualcuno che mi avesse raccontato questo luogo. Ci sono poi tornata grazie agli autori, che ho amato moltissimo come Cesare Pavese, Nuto Revelli. Ho riscoperto la piemontesità, questo modo di fare, questa ironia di cui non mi ero mai accorta, non l’avevo mai capita… e mi ha lasciato stupita. Mi è venuta voglia di capire meglio, di trascorrere tempo qui.
Come sei riuscita a capire l'essenza di Asti?
Ho capito che per coglierne l'essenza bisogna respirare in qualche modo la vita di campagna. Asti è un territorio a vocazione agricola e ho cercato di ragionare molto su questo pensiero anche durante l'ultimo Settembre Astigiano, che ho vissuto in città. Cercando di starci, in tutti i sensi. Per me vivere l'essenza di Asti è stato anche un ritorno al passato: mio nonno aveva fondato la scuola agraria. Questo legame con l’anima agricola della città è stato per me un passaggio fondamentale.
Cosa vorresti fare ad Asti e per Asti?
Sento che ci sono cose da fare in questa città e per questa città: uno dei miei desideri è quello di essere più partecipe nella vita culturale astigiana. Queste mie peregrinazioni hanno prodotto in me un sentimento di riconoscenza verso quello che questa città mi ha dato, anche se inizialmente non ne ero consapevole, e vorrei riuscire a restituire una parte di quello che ho imparato, condividendolo con le persone che vivono qui. Questo è importante per sentirsi parte di qualcosa. Apprezzo molto il lavoro che stanno facendo ad esempio a FuoriLuogo, il voler creare una vita sociale culturale per stare insieme. Un aspetto che secondo me mancava ad Asti e che invece a Bologna ho vissuto con forza. Asti sta cambiando in questo senso; ha imboccato la strada giusta.
Vivi a contatto con tanti attori e registi in giro per l'Italia e per il mondo. Che immagine c'è in giro di Asti e dell'Astigiano?
Le persone che vengono ad Asti si ricordano sicuramente del vino. Ho riscontrato, però, una certa confusione in giro tra l'Astigiano e le Langhe. Le persone che conosco io che vengono ad Asti generalmente lo fanno con il festival Asti Teatro. Molti rimangono stupiti della bellezza della città, diversi mi hanno parlato del fascino del Diavolo Rosso, per esempio.
C'è una nota negativa?
Ho l'impressione che le persone passino un po’ ad Asti senza aver capito bene dove siano state realmente: forse non lo abbiamo capito molto neanche noi. C’è un problema di identità culturale in noi astigiani: siamo una provincia che deve riappropriarsi della sua identità culturale. La parola cultura è fondante in tal senso ed è il tramite per conoscere meglio la nostra città, la nostra essenza.
C'è qualcosa che ti manca di Asti quando ti svegli al mattino e apri gli occhi in un'altra città?
Mi manca costantemente uscire con la mia bici e, da piazza Cattedrale, essere in campagna nel giro di dieci minuti. Mi manca questa sensazione di prossimità, mi manca passare in mezzo ai paesini e fermarmi al bar a parlare con le persone. Mi manca questa dimensione raccolta di Asti. Un aspetto che prima mi spaventava: non amavo l'idea di trascorrere le serate sempre nello stesso posto, ma ora questo è un dettaglio in cui trovo grande conforto. Quando sei giovane pensi di voler avere tutto, soffocato dalle scelte e dalle possibilità. Dopo aver vissuto in grandi città, penso che sia meglio poter scegliere tra meno opzioni e più di qualità.
State ad ascoltare. Il migrare in permanenza, la restanza
Poi Marina si ferma. Mi dice che sta leggendo un libro. "La restanza". "Ti leggo un passaggio che mi ha colpita molto". Ascolto. Affascinata.
Il primo capitolo si intitola "Rimanere in un futuro". Quattro parole che riassumono il senso di un'intervista. Eppure non le avevamo neanche cercate.
Legge. "Amo i miei luoghi e, a volte, odio restarvi e vorrei disseminarmi in tutti i luoghi del mondo (...). Il mio non è un elogio del restare come forma inerziale di nostalgia regressiva, non è un invito all'immobilismo, ma è solo un tentativo di problematizzare e storicizzare le immagini-pensiero del rimanere come nucleo fondativo di nuovi progetti, di nuove aspirazioni, di nuove rivendicazioni. Lo so e lo sento il senso profondo del migrare in permanenza, l'epica della resistenza e della rivoluzione nella restanza".
Torniamo nel vivo della nostra chiacchierata. Io però una domanda te la devo fare. Come è stato stare vicino a Lady Gaga, sul set di "House of Gucci"?
È stato bellissimo. Ero pronta a vedere una diva e, in effetti, Lady Gaga lo è. Non negli atteggiamenti, però: è una persona molto disponibile, molto gentile. Vederla lavorare per me è stato molto interessante. È brava, ha qualcosa che quando entra da qualche parte muove l'aria. È un'artista che stimo moltissimo, ha una grande personalità.
Quali sono gli artisti diventati per te punti di riferimento?
Come regista amo molto Giorgio Diritti, come attore Elio Germano. Cerco però di pescare molto da fuori. La chiave per le ispirazioni credo stia nel prendere sempre dal mondo dell'arte in generale, per allargare il più possibile i propri orizzonti.
Quali sono i progetti che ti vedono impegnata oggi?
Sto lavorando a Milano a teatro. Presto porteremo in scena al Piccolo "Il Barone Rampante", per la prima volta la famiglia ha concesso i diritti. La prima sarà a gennaio. Mentre invece in primavera porteremo al teatro Franco Parenti "Il Misantropo" di Molière. Ci saranno anche le seconde stagioni sia di Studio Battaglia che di Monterossi.
Il ruolo più difficile che hai interpretato fino ad ora?
Forse quello che sto affrontando adesso: Viola del Barone Rampante. È un personaggio complicatissimo, apparentemente antipatico. In realtà devi trovare sempre il modo di amare ciò che interpreti e difendere i tuoi personaggi fino alla fine. Il mio è un personaggio controverso, è una donna capricciosa con grandi sbalzi di umore.
Quale, invece, quello con cui sei subito entrata in empatia?
Viola di Studio Battaglia: con quel personaggio mi sono sentita a mio agio già dal provino. Allegra, un po' caciarona. Mi sono sentita subito a casa e mi sono molto divertita.
Credo che per interpretare al meglio un personaggio sia fondamentale la dimensione del sentire. Cosa senti quando lo fai?
Artaud diceva che gli attori sono atleti del cuore ed è una definizione che mi piace molto. E come se noi lavorassimo principalmente con questo muscolo: serve allenarlo e conoscere il materiale emotivo dentro di te per poi plasmarlo tutte le volte su personaggi diversi.
Io credo non sia possibile diventare un altro, snaturarsi; amo chi presta la propria personalità al personaggio che interpreta, cercando di farla entrare nella storia. Penso sia il regalo più grande per uno spettatore. Prestare anche le proprie ferite e crepe al teatro e al cinema per far sì che qualcosa scritto sulla carta diventi carne. Questa è la vera magia.