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In Breve

| 28 aprile 2020, 18:38

Il Coronavirus visto con gli occhi di un avvocato astigiano, tra costituzionalità e privacy: "Il nostro mestiere non sarà più lo stesso"

Filippo Testa ci racconta come cambia il mestiere dell'avvocato in quarantena. Per i Tribunali si prevede un ritorno alla normalità a settembre, ma c'è chi sostiene la carta dei processi online. Intanto aumentano le denunce per violenza domestica nell'Astigiano. "Il problema reale è che sembra quasi essersi dimenticati del fatto che esiste il male oltre al virus"

Abbiamo intervistato l'avvocato astigiano Filippo Testa, per farci raccontare cosa sta succedendo all'interno della macchina della giustizia in questo periodo di stop forzato da Covid-19. Un ritorno alla normalità che per la giustizia sembra essere ancora molto lontano, ma che potrebbe ricevere alcuni aiuti dalla tecnologia del nostro tempo.

Com'è la quarantena di un avvocato astigiano? Si riesce a lavorare un po' da casa?

Se mi è consentito di svestire, per un momento, i panni dell’avvocato, tralasciando volutamente di praticare il “giuridichese o legalese” (spesso utilizzato per rendere incomprensibili concetti chiari), credo che un termine calzante da poter utilizzare sia “sospeso”. Ricordo (e credo, onestamente, che mai potrò dimenticare) quel tardo pomeriggio dell’11 marzo. Asti era diventata da poche ore zona rossa, e nessuno avrebbe potuto immaginare cosa ci aspettasse. Mi guardavo intorno cercando di capire quali pratiche avrei potuto svolgere da casa, quali fossero le scadenze preoccupanti, cercando di capire come avrei potuto adempiere al mio mandato professionale nell’eventualità in cui mi fossi trovato costretto a non potermi recare in studio. Ricordo i miei collaboratori che, muniti di trolley, si erano recati in studio per fare lo stesso.

Dopo quel famoso discorso alla Nazione dell’11 marzo 2020, ci trovammo tutti “sospesi” in un limbo mai sondato prima di allora; la paura del cambiamento, il senso di frustrazione provato per non poter fare nulla, per sé e per gli altri.

Per un avvocato la “sospesione feriale dei termini” potrebbe essere definita come “quel momento in cui ci si dedica alla programmazione per la riapertura e, perché no, anche al meritato riposo”. In questo caso, non fu così. La mia categoria, come tante altre, si trovò letteralmente spiazzata. Di lì a poco, venne emanata dal Presidente della Regione Piemonte, sulla scia del trend lombardo, un’ordinanza con previsioni ancor più restrittive rispetto a quelle previste nel DPCM.

Ci troviamo, ancora oggi a non poterci recare in studio per poter lavorare; lo chiamano “lavoro agile” ma, ad onor del vero, non mi sento di poter dire di aver trovato cosi “agile” lavorare in queste condizioni. Da quel momento in poi, ho cercato di creare una “pseudonormalità” che potremmo definire “da Covid 19”: videochiamate con i miei collaboratori la mattina per pianificare l’attività, calendarizzazione delle scadenze e tentativo di depositare gli atti depositabili, nel rispetto delle prescrizioni e dei protocolli indicati. Riesce difficile infatti immaginare che un avvocato possa definirsi pienamente tale, quando gli venga impedito di recarsi presso il proprio studio, di ricevere clienti, accedere agli Uffici Giudiziari e depositare atti relativi alle cause pendenti. Abbiano tentato di dare all’attività professionale una parvenza di normalità, ma è evidente che non ci sia nulla di normale nel momento che stiamo vivendo quindi, la mia categoria, come tante altre purtroppo, è stata messa in stand by.

Quali sono, da un addetto ai lavori, le tempistiche sulle riaperture dei tribunali e del ritorno alla normalità di cause e processi?

Se mi sta chiedendo quando penso ci sarà consentito di tornare a frequentare il Tribunale di Asti, con enorme dispiacere, devo ammettere che temo che le tempistiche non siano del tutto rincuoranti. Auspico però si possa tornare alla “normalità” entro il mese di settembre.

A seguito della sospensione prevista sino all'11 maggio, sono stati adottati protocolli di intesa, con indicazione delle modalità di deposito degli atti: per il processo civile, già telematizzato, il problema riguarderà, più che altro, la celebrazione delle udienze.

Per quanto riguarda invece il processo penale, la questione si prospetta decisamente in termini più critici. La peculiarità di questo processo è che poco si presta alla celebrazione asincrona e, men che meno, alla non compresenza delle parti: il penale è, per definizione, il diritto del fatto, occorre evidentemente qualcosa di più di un’argomentazione predisposta “nero su bianco”.

Nel voler rincorrere a tutti i costi l’ ”efficienza”,anche ai tempi del coronavirus, si rischia di distruggere il diritto penale, così come lo immaginiamo oggi. Il rischio (assai pericoloso) che si corre è quello di violentare il principio di oralità sul quale poggia le fondamenta il processo penale. La vera ed effettiva oralità si ha solo con la compresenza di tutte le parti. Tutto il faticoso percorso di costruzione della verità nel contraddittorio tra le parti, potrebbe pertanto essere irrimediabilmente alterato.

Per il periodo compreso poi fra il 12 maggio ed il 30 giugno, si prevede poi il rinvio d’ufficio di tutte le udienze fissate in questo arco temporale, con qualche eccezione per le udienze che non necessitino della partecipazione delle parti. Quindi si verificherà, di fatto, una ricalendarizzazione di tutte le udienze penali, con tutte le conseguenze che ne discendono.

Come dicevo prima, per il ritorno alla “normalità” ci vorrà tempo e dovremo fare tutti i conti con il dato spinoso del cambiamento: anche l’attività dell’avvocato post pandemia, non sarà più quella di prima.

Si parla tanto di libertà e di Costituzione. I provvedimenti anti-Covid possono davvero essere considerati anti-costituzionali?

La questione del deficit di costituzionalità è diventata una delle più dibattute, forse una fra le più spinose e delicate da trattare. Il motivo credo sia rinvenibile nel senso di esasperazione che pervade le persone in questo momento. Da una prima fase di accettazione dei dettami indicati dal Governo il passare del tempo ha reso l’opinione pubblica più consapevole e critica. Alle persone veniva detto di “non uscire” e il messaggio continuava ad essere “State a casa”. Ma quante e quali le complicazioni che si nascondono dietro a questo slogan? Ferma restando la più che verosimile violazione della riserva di legge a valle, il problema a monte riguarda la percepita violazione di numerosi diritti costituzionalmente garantiti.

A titolo esemplificativo, l’art. 13 della Costituzione tutela la libertà personale ed afferma che "la libertà personale è inviolabile", ribadendo nel successivo comma che qualsivoglia limitazione della libertà personale può aversi solo "per atto motivato dall’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge". L’analisi deve proseguire con attenzione ai successivi articoli 16 e 17 della Costituzione, il primo stabilisce che "ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio nazionale, salvo le limitazioni che la legge stabilisce in via generale per motivi di sanità o di sicurezza", il secondo riconosce la libertà di riunione "pacificamente e senz’armi".

La legittimazione statale ad introdurre restrizioni, troverebbe origine nel combinato disposto degli articoli 2 e 32 della Costituzione: la Repubblica tutela la salute come diritto fondamentale e supremo. La scelta del Governo è stata innovativa: le limitazioni alla circolazione delle persone e alle attività produttive sono state previste, nei tratti essenziali, tramite decreti legge e attuate tramite decreti della Presidenza del Consiglio dei Ministri. In molti, me compreso, sono critici su questa tecnica normativa, in quanto sarebbe certamente più consono che le limitazioni avvenissero in forza di legge e non tramite un decreto della Presidenza del Consiglio. Su questi DPCM, infatti, non vi è un diretto controllo né da parte del Parlamento, né da parte del Presidente della Repubblica.

Quindi, a mio modesto avviso, nobile il fine, forzatamente corretto il mezzo, discutibili le modalità. Si deduce comunque la sfiducia del Governo nei confronti della popolazione a contenere la pandemia con il solo utilizzo del buon senso, a scapito purtroppo di altrettanti diritti inviolabili che vengono di fatto declassati.

Cosa ne pensa della possibilità di portare avanti processi telematici? Cosa significherebbe per la privacy?

Penso che sia innanzitutto doveroso fare un’opportuna distinzione fra processo civile e processo penale. Il processo civile, seppur fondato sul principio dell’oralità, così come pensato dal legislatore, si presta maggiormente ad essere sviluppato secondo modalità telematiche. Tant’è vero che, ad oggi, è previsto obbligatoriamente il deposito telematico degli atti del processo. Per quanto riguarda le udienze, occorrerebbe valutare la conciliabilità dell’oggetto della domanda con la modalità telematica. Per intenderci, in una causa ad esempio nella quale si discuta di contratti, prestazioni, proprietà etc, la presenza delle parti e l’eventuale necessità di chiarire in udienza alcuni punti cruciali della vertenza si manifesta, forse più attenuata. Lo stesso discorso, ritengo non possa valere per i giudizi in materia di famiglia, minori, interdizioni ed amministrazioni di sostegno, pensati per tutelare fasce deboli, nell’ambito dei quali, non a caso, è prevista anche la partecipazione del Pubblico Ministero.

Il processo penale mal si concilia con le modalità telematiche. Il rischio è quello di snaturare il processo, a scapito del diritto di difesa; un rischio che, a mio parere, lo Stato non può accollarsi.

Per il tema della privacy, ritengo che i software attualmente in uso consentano una protezione più che sufficiente. Siamo nel pieno dell’era digitale, confido nel fatto che vengano ideati e sviluppati sistemi di protezione al passo. Onestamente, sono molto più timoroso della possibilità di tracciamento degli spostamenti dei singoli cittadini tramite applicazioni ad uso statale.

Dall'inizio dell'emergenza c'è stato un aumento di denunce per violenza domestica nell'Astigiano?

Per quanto a mia conoscenza, sì. Direi proporzionale al territorio italiano. Senza alcuna vena polemica, ritengo che le disposizioni emergenziali avrebbero dovuto tenere in debita considerazione il fenomeno delle violenza familiari, molto diffuso e generalizzato.

La coabitazione, in alcuni casi forzata, ha avuto un ruolo determinante. Addolora e preoccupa pensare a quante persone si siano letteralmente trovate “in gabbia”, costrette a dover condividere ogni secondo della loro giornata con chi esercita su di loro violenza fisica e morale.

Il problema reale è che sembra quasi essersi dimenticati del fatto che esiste il male oltre al virus, un dolore silente che miete quotidianamente molte vittime.

Dobbiamo evitare, per quanto complicato sia, di essere miopi o smemorati. Occorre guardare oltre, proteggere chi era già debole prima e in questo momento storico non ha voce per urlare al mondo le ingiustizie subite, reso muto da una convivenza domiciliare forzata.

Elisabetta Testa

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